Libera il pensiero
Arte e pensiero critico al tempo della post-verità
Da Popper a Orwell, da Korzybski ad Ai Weiwei: perché abbiamo smesso di pensare e come uscire dalla gabbia della propaganda.
József Rippl-Rónai, “Donna con gabbia di uccelli”, 1892, Galleria Nazionale Ungherese, Budapest. Public domain.
Viviamo nel tempo della post-verità. Un’epoca disorientante, in cui valori che consideravamo conquiste della nostra civiltà — come la conoscenza e il dialogo democratico — vengono sempre più spesso violati o ignorati. Come siamo arrivati fin qui, e come reagire? Senza pretesa di esaurire un tema così complesso, ecco un’analisi e una proposta. Perché capire è il primo passo per cambiare, e perché ogni cambiamento inizia da se stessi.
Il paradosso della tolleranza
Cosa sta accadendo alla nostra capacità di pensare autonomamente? Perché la conoscenza è vista con sospetto? Perché il pensiero si è atrofizzato?
Fake news, sovraccarico di notizie (information overload) e post-verità non sono solo fenomeni culturali. Sono i sintomi di qualcosa di più profondo: un attacco sistematico alla nostra capacità di distinguere i fatti dalle opinioni. Una capacità essenziale, perché pensare in modo autonomo e creativo è la base per qualsiasi vera trasformazione.
Lo aveva profetizzato Hannah Arendt: “ll suddito ideale del regime totalitario non è il nazista convinto o il comunista convinto, ma l’individuo per cui la distinzione tra fatto e finzione, vero e falso, non esiste più”.
Ridefinire la realtà per farla coincidere con l’ideologia è il programma dei regimi autocratici. Chi invece è democratico — o semplicemente civile, verrebbe da dire — si impegna a giungere alle risposte mediante il dialogo, anche a prezzo di tempo e fatica. La premessa di partenza è il rispetto reciproco. Nessuna posizione è esclusa a priori — salvo gli estremismi, perché la loro stessa natura impedisce il dialogo e mira a sopraffare l’altro.
È quanto descrive il filosofo della scienza Karl Popper nel suo “paradosso della tolleranza”. In breve, non si può essere tolleranti con gli intolleranti, perché questi ne approfitterebbero per prevaricare e distruggere la tolleranza stessa.
Ma come si è arrivati a questa diffidenza — anzi insofferenza — per la conoscenza? Vedo responsabili due fenomeni connessi, che caratterizzano l’epoca post-moderna.
Le idee sono potere
Il primo è il decostruzionismo, la posizione filosofica che mette in discussione tutte le grandi idee del Novecento.
Anticipato dalla Scuola di Francoforte di Adorno e Marcuse, il decostruzionismo fu poi sviluppato in Francia da Derrida e Foucault a partire dagli anni Sessanta. I decostruzionisti vedono le idee come affermazioni di potere. Ogni affermazione rimanda a un contesto che la legittima, ma questo fa parte di un altro contesto più ampio e così via all’infinito — dunque non c’è nulla che abbia significato in sé.
Cosa allora determina il significato? Chi detiene il potere. In questa prospettiva, anche sapere e competenza sono espressioni dell’autorità, strumenti mediante i quali le élite mantengono potere e privilegi.
L’intuizione decostruzionista secondo cui il significato è socialmente costruito ha il merito di averci allertati sul pericolo di credere ciecamente in qualcosa, come era accaduto con le dittature del Novecento. Ha inoltre svelato le narrative che sostenevano sia l’ideologia capitalista che quella comunista.
La deriva del sospetto
Ma qual è la deriva di questo pensiero? Sospettare, in modo paranoide, di chiunque sia in posizione d’autorità — politica, religiosa, scientifica, culturale. Mettere in dubbio l’idea stessa che possa esistere una verità verificabile. Arrivare ad avere fiducia solo nella propria esperienza diretta e in quella di chi ci rispecchia.
Una specie di solipsismo amplificato dalla rete e alimentato dalle sue bolle informative. Chiuse nella loro autoreferenzialità, queste “camere dell’eco” (echo chambers) diventano terreno fertile per teorie complottiste e campagne d’odio.
Insomma, portato all’estremo il decostruzionismo ha fornito la base filosofica non solo per mettere in discussione qualunque idea portante, ma per delegittimare la conoscenza, non importa quanto fondata e verificabile.
Una posizione filosoficamente insostenibile, perché anche chi afferma che non c’è nessuna verità sta di fatto esprimendo la sua verità.
Inoltre, forzando il significato di libertà di pensiero, se la realtà viene equiparata a un punto di vista soggettivo, se qualunque narrazione deve considerarsi valida come qualunque altra — come ci si può orientare nel caos del mondo?
Paradossalmente, nel tentativo di liberare dagli inganni del potere, il decostruzionismo radicale destabilizza, genera caos e prepara il terreno per chi affermi di avere una soluzione: una nuova ideologia — o una riciclata — che finalmente riporti ordine, sicurezza, benessere.
Da consumatori a seguaci
Il secondo fenomeno, conseguenza diretta del decostruzionismo, è la perdita di autorevolezza e credibilità dei soggetti istituzionali di intermediazione, come giornali, reti televisive e case editrici. Questi soggetti, prima considerati necessari, agivano da filtro e potevano essere valutati in base alla loro oggettività e reputazione.
Il moltiplicarsi delle fonti, spesso anonime e prive di storia (chiunque può scrivere online), ha invece reso molto più difficile verificarne l’attendibilità.
Così, privi di riferimenti affidabili per orientarci nella giungla delle informazioni, diventiamo facile preda di chi piega i fatti con gli artifici della retorica e della persuasione — per venderci la sua verità, la sua idea di mondo e del futuro.
Asservita all’ideologia, la comunicazione si fa propaganda. I suoi strumenti vengono impiegati per diffondere verità di comodo e condizionare le scelte facendo leva su emozioni viscerali come la paura e l’odio, capaci di accecare il pensiero riflessivo.
Un esempio sono le fabbriche che riversano in rete fake news confezionate per influenzare pubblici profilati, o per inquinare le risposte dei servizi di AI.
Più semplice e categorica è, più la “verità” suonerà convincente e sarà facile da diffondere.
Tutto ciò accadeva nell’antichità classica con i sofisti, e nel secolo scorso con la propaganda fascista, nazista e comunista — la denuncia dei decostruzionisti. La novità sta nelle tecnologie di inaudita potenza di cui i nuovi autocrati dispongono.
Queste tecnologie si rivolgono a un nuovo tipo di consumatore: non più solo di beni e servizi, ma di informazioni prodotte al fine di sottometterlo.
Più che consumatore, un seguace, che non sa più distinguere le opinioni dai fatti, considerare le cose da più prospettive, mettere in relazione il dettaglio con il quadro più ampio. Uno scenario che evoca “1984” di George Orwell.
Gabbie linguistiche
Nel romanzo, il regime totalitario ha compreso una verità fondamentale: controllare il linguaggio significa controllare il pensiero. Il Partito riduce sistematicamente il vocabolario inglese: grazie al newspeak, la “neolingua”, entro il 2050 nessuno sarà più in grado di comprendere testi del passato, perché mancheranno le parole per descrivere concetti come “libertà” o “diritti individuali”.
Ad esempio, le idee precedenti ai dogmi del Partito sono raggruppate nell’unica categoria oldthink — “vecchiopensare”. Ciò rende impossibile qualunque distinzione o riflessione, perché il vecchiopensare è per definizione antico, superato, inutile.
Oppure, il male è detto ungood, “nonbuono”. Poiché non ci sono parole per distinguerne le diverse forme, il male non ha più contorni. Esiste solo ciò che è bene per il Partito, ogni altro comportamento è deviante, nonbuono.
Insomma, la neolingua orwelliana non si limita a proibire certi pensieri — li rende inesprimibili. Una strategia più subdola e perciò più efficace. L’effetto di questa programmazione cognitiva è di paralizzare la scelta e l’azione. Totalitarismo politico e totalitarismo linguistico sono inseparabili.
Anche se non siamo nel romanzo di Orwell, le abilità di pensiero critico sono oggi necessarie più che mai come antidoto alle storture della post-verità e alla paralisi che ne deriva. “In un’epoca di inganni universali”, afferma Orwell, “dire la verità è un atto rivoluzionario”.
Il pensiero critico è consapevolezza di come il linguaggio struttura la nostra esperienza, influenzando la percezione delle cose. “Critico” deriva infatti dal greco krìnein, cioè discriminare, distinguere. Chi ha un vocabolario ricco letteralmente vede più e meglio degli altri.
Un’intuizione che spinse il matematico e filosofo polacco Alfred Korzybski, autore di Science and Sanity (1933), a creare un sistema di educazione al pensare basato sul linguaggio, la “semantica generale” — poi ripresa negli anni Settanta, insieme alle intuizioni di Noam Chomsky, dai fondatori della programmazione neurolinguistica (PNL) Richard Bandler e John Grinder.
Il pensiero critico è ciò che colloquialmente chiamiamo “ragione”. La ragione non imprigiona il pensiero, gli dà forma e sostanza, lo custodisce. Ha la porta aperta. Non è una gabbia, è una casa.
Testa e cuore
E però, per quanto utile, il pensiero critico non è sufficiente. Il suo organo di senso, infatti, è la testa. C’è un altro potente antidoto, a mio avviso altrettanto necessario, che parla al cuore: l’arte.
L’arte è per sua natura ribelle. Rigetta le visioni a senso unico, contesta i confini imposti, è inclusiva. L’arte sottrae spazi al potere, svela profondità oltre la superficie, fertilizza e rigenera il pensiero. Nella creatività, il pensiero diventa azione e trasformazione.
Un esempio è Ai Weiwei, il coraggioso artista cinese noto per le opere che sfidano apertamente il potere autoritario e difendono i diritti umani. Dice: “La creatività è il potere di rifiutare il passato, di cambiare lo status quo e di cercare nuovo potenziale. In parole semplici, oltre a usare l’immaginazione — cosa forse ancora più importante — la creatività è il potere di agire”.
Per essere libero, il pensiero deve poter respirare, volare, guardare dall’alto e scendere in picchiata, spingersi all’orizzonte e oltre. Il pensiero libero è pieno di riflessi, scintillante, generativo. Prigioniero è spento e sterile.
In sintesi, le nostre abitudini mentali, quando sono inconsce, possono diventare gabbie invisibili. Le sfumature del linguaggio e le provocazioni dell’arte aiutano a liberarsi da queste sbarre cognitive.
Testa e cuore, ragione e arte, ingegno e immaginazione: così il pensiero esce dalla prigionia e si traduce in azione creativa.
Più che una possibilità, una necessità. Non solo per chi ha un ruolo di leadership — penso non soltanto ai politici, ma anche a imprenditori, manager, educatori — ma per chiunque non rinuncia a pensare con la sua testa.
Pensare libera. Libera il pensiero.
Quali pratiche o abitudini ti aiutano a uscire dalle gabbie mentali? Se questo articolo ti ha ispirato condividilo con chi, come te, crede nel potere trasformativo del pensiero libero.